Aleksej Grigor’evič Stachanov

Sto lavorando dodici, quattordici, quindici ore al giorno. Non per dire numeri a caso, lavoro davvero sessanta e spingi ore alla settimana. Quando torno a casa studio perché ci sono gli esami tra poco. Nel fine settimana se non lavoro dormo e se sono sveglia desidero dormire o studio. Se non faccio niente mi assale un amarissimo horror vacui. A volte mi sveglio con la sensazione di aver interrotto un sogno in cui cerco di capire un’immagine TC o ripasso anatomia. A volte a metà giornata mi viene voglia di spaccare qualcosa, tendenzialmente il cranio di qualcuno.
Forse sto diventando una persona che si appresta all’analfabetismo di ritorno, all’ulcera gastrica e alla solitudine guadagnata di chi sceglie il lavoro. Forse è solo la lotta contro la metamorfosi dalla persona che sono – che mi garba abbastanza – a quella che rischio di diventare – con cui non credo vorrei nemmeno fare la coda in posta.
Alcune delle persone che mi circondano sembrano lo specchio di quello che diventerei se mi mancassero le forze per lottarmi contro. E non posso che sperare di imparare da quelle persone, come se fossero il mio memento, come è bello non essere, quello che non voglio diventare. E non è solo una questione di ore lavorate, ma di priorità, di spessore umano, di intelligenza sociale, di importanza delle parole scelte, di memoria, di equità e onestà.
Ho bisogno di un po’ di tempo che sia mio, per ricordarmi che quando torno a casa sono felice di quello che ci trovo. 
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